Moltissime e di vitale rilevanza sono, nel panorama storico che possiamo contemplare analizzando con attenta pazienza i più recenti decenni trascorsi in Italia, le conquiste ottenute nel campo della giustizia sociale e dei diritti di tante categorie di cittadini in qualche misura sottoposti a svantaggi, complicazioni, o particolari condizioni; e uno in particolare, che riguarda una fetta della nazione in assoluto non insignificante, di svariate centinaia di migliaia di persone, ha avuto un tragitto particolarmente curioso, intricato e tortuoso, sovente interrotto e ripreso a singhiozzo, e a dirla tutta ancor oggi non del tutto completato. Stiamo parlando del riconoscimento dei diritti dei disabili, un proposito che va ben al di là della banale installazione di montascale, in cui molti pensano che il problema si esaurisca.
È difatti di ben altra natura e grandezza, ben più ampia e profonda, la faccenda che stiamo affrontando. Già nella nostra legge principale, la nostra Carta Costituzionale, viene espresso in maniera interamente chiara e inoppugnabile il precipuo concetto che al cittadino, per il puro fatto di essere tale, competano non soltanto dei precisi e imprescindibili doveri, ma anche parimenti essenziali e irrinunciabili diritti, fra i quali potremmo citare agevolmente la salute, il lavoro, la socialità e l’istruzione. E evidentemente non viene fatta parola -sarebbe impensabile- del fatto che la situazione di disabilità possa in qualche modo sospendere o eliminare alcuno di tali diritti, e meno che mai la condizione stessa di cittadino. Eppure praticamente il disabile viene privato di tali diritti, e questa fu una fondamentale presa di coscienza degli anni Sessanta.
Fu proprio in quegli anni che ebbe inizio un lavoro fenomenale, sia per grandezza che per ricadute positive, ad opera di una vasta serie di associazioni di volontari, in parte composte da membri di famiglie in cui era presente un disabile, e in parte da disabili stessi. È nella loro azione che possiamo scorgere tutti i segni della grande spinta al cambiamento che occorreva per poter ottenere risultati concreti: un rinnovamento da giocarsi simultaneamente su due diversi campi, quello istituzionale da un lato, dove far trasformare in leggi quelle istanze dei disabili che ormai non potevano più essere rimandate, e quello del sociale e del quotidiano dall’altro, in cui far scaturire, con una costante azione di coscienza, quella che prese via via il nome di “cultura dell’handicap” e che consiste in un diverso atteggiamento e contegno verso la disabilità e chi ne è colpito. Campi in cui l’azione di sindacalisti, insegnanti e volontari fu decisiva.
Come abbiamo detto, quello del riconoscimento dei diritti dei disabili è un percorso storico ancora non definito, e al quale quindi conferire date precise può apparire insieme futile e banale; se tuttavia vogliamo ravvisare proprio una tappa importante, per non dire fondamentale, di questa storia, possiamo quasi certamente far bene ad indicare l’anno 1971, e nello specifico la data del 30 marzo. Quel giorno fu infatti approvata la legge 118 sull’invalidità, che fu la base su cui fu possibile erigere tutti i successivi sviluppi della questione disabilità: con essa fu codificato il pensiero, che è per noi ormai patrimonio acquisito, che riabilitare un disabile non si limiti ad una perizia di tipo medico, ma si estenda a un pieno inserimento sociale che dia senso al lavoro ed allo sforzo del terapista e del disabile stesso.